Oggi abbiamo il piacere di ospitare Marco Pugliese, Editor in Chief di African Voices, che ci racconta come inizia la sua incredibile esperienza di vita in Africa e da dove nasce il suo grande amore per questo continente.
Un missionario in Africa disse: “Chi viene in Africa un mese, quando torna a casa scrive un libro. Chi viene in Africa e rimane una vita non riuscirà mai a raccontare quanto amore ha nel cuore.”
Non era facile negli anni ‘60 immaginare di cambiare totalmente vita e ancora più impensabile era di cambiarla per un’intera famiglia. Mio padre, imprenditore italiano di successo, ebbe la fortuna di incontrare un uomo che gli propose una cosa inimmaginabile: trasferirsi e andare a lavorare in Africa. Ricevette questa proposta a gennaio del 1969, dopo, non poche indecisioni iniziali, vinse la voglia di avventura. A metà di ottobre dello stesso anno, partimmo alla volta di Dar es Salaam, in Tanzania.
Dei tre figli, io ero quello più ossessionato e impaziente di partire. Avevo solo 6 anni, quasi 7, ma se avessi potuto sarei partito per l’Africa nel momento stesso che ne sentii parlare in casa dai miei genitori. Da Roma, partimmo con l’aereo più grande che avessi mai visto nella mia vita alla volta di Nairobi. Arrivati a Nairobi ero esterrefatto e divertito nel vedere quanti uomini e donne dello stesso colore ci fossero. I bianchi che scesero dall’aereo sparirono come avvolti in quella splendida ondata nera… e quelle voci, quel suono che usciva dalle loro bocche, sembrava che ognuno di loro cantasse una canzone. Appena fuori dall’aeroporto fui assalito da un ondata di calore infernale che mi entrò dentro dal naso e dalla bocca; sentivo le narici bruciare. Quel sole accecante ci faceva stringere gli occhi. E poi, tutto assieme arrivò quell’odore, l’odore che non avrei mai più dimenticato in tutta la mia vita; odore intenso di ebano.
Il giorno dopo partimmo alla volta di Mombasa e per volere di mio padre che voleva vivere l’avventura a tempo pieno, salimmo su un aereo molto più piccolo che partiva da una pista secondaria dell’aeroporto per volare a Mombasa. Su quell’aereo ci saremo stati una ventina di persone, forse qualcuna in più e gli unici europei eravamo noi. Mio padre era molto felice, mia madre era stanca per il caldo intenso e per dover badare a tre figli che si rendevano conto di essere arrivati all’ingresso del più grande parco giochi del mondo!
Il volo doveva durare circa 2 ore, ma dopo solo un’ora il pilota fece una lunga virata verso destra piegando talmente le ali che dall’oblò vidi il cielo quasi scomparire dalla mia visuale. Poi riprese l’assetto e cominciò ad abbassarsi, sempre di più. Buttai lo sguardo verso la cabina del pilota che era aperta e intravidi davanti a sé una lingua di terra rossa che formava una specie di pista in mezzo al nulla, non capivo, ma era entusiasmante. Atterrammo. L’aereo usò tutta la pista per fermarsi tra scossoni e sussulti. Poi lentamente tornò indietro di un centinaio di metri e aspettammo in silenzio. Dopo qualche minuto guardai fuori dal finestrino e vidi un uomo di mezza età, magro e vestito di poco che guidava un carretto trainato da due mucche (con una strana gobba che non avevo mai visto) e sul carro c’erano alcuni bidoni di benzina e una pompa di gomma; era il rifornimento di carburante per poter continuare il viaggio! Non c’era alcun dubbio, stavamo toccando con mano l’Africa.
A Mombasa dormimmo in un piccolo hotel sulla costa sud della città e mangiammo pesce a sazietà. Il giorno dopo affittammo una jeep che ci portò lungo la costa verso fin quasi al confine con la Tanzania. Il viaggio durò qualche ora e a tratti ci si fermava a contemplare il paesaggio, il mare, la gente, le donne con ogni genere di carico sulle loro teste e i bambini nudi che correvano qua e la senza paura alcuna. Alla sera ci fermammo in un piccolo villaggio di pescatori e mio padre cercò una sistemazione per passare la notte. La trovò in una di queste capanne dove le donne dei pescatori si fecero in quattro per renderci la “casa” più confortevole possibile e cenammo con loro. Mio padre comprò tutto il pesce rimasto e insieme lo fecero cuocere sui bracieri. Mangiammo e bevemmo tutti insieme sotto le stelle. Noi bambini giocammo coi i bambini africani e non sembrava vero poter giocare di notte sulla spiaggia alla luce della luna.
La mattina seguente ci affrettammo perché stava per partire il mezzo che ci avrebbe portato a destinazione. Salpavamo su un grande dhow a vela dei pescatori alla volta di Dar es Salaam. Era l’atto finale del primo grande viaggio in terra africana che sarebbe stato per sempre nelle nostre memorie. Arrivammo a Dar es Salaam il giorno successivo. Avevo una sensazione forte dentro di me che solo dopo molti anni sarei stato in grado di spiegare. Intorno a noi solo uomini semi nudi e scalzi, curvi sotto carichi di sacchi di ogni genere, che si incrociavano senza mai scontrarsi l’uno con l’altro. Erano decine, forse centinaia e nessuno ci degnava di uno sguardo, come fossimo invisibili. E noi lì, cinque mosche bianche vestiti da bianchi lindi e stanchi con le valige e scatole ammucchiate intorno a noi in attesa che qualcuno ci venisse a prendere e ci portasse in quella che per i prossimi dieci anni sarebbe stata la nostra casa.
Quei 10 anni in Tanzania sono stati i migliori anni della mia vita. Ho amato la gente, la terra, la scuola e i molti insegnamenti appresi da chi vive in Africa ogni giorno, eroi di ogni tempo. Ho visitato molti Paesi dell’East Africa e del centro Africa, senza mai passare da itinerari conosciuti. Ho conosciuto tribù, capi e popoli con la stessa umiltà di uno scolaro dinnanzi al grande maestro. Ho provato emozioni , dolori e gioie irripetibili e ho visto nascere e morire molti amici.
Sono tornato in Africa diverse volte nella mia vita. Ho visitato diversi altri paesi nel mondo, ma ancora oggi devo trovare un solo paese capace di trasmettermi almeno un centesimo di quanto abbia saputo fare Mama Africa. Per sempre Africa!
Marco Pugliese
Sei d’accordo con Marco? Per te che sensazioni trasmette l’Africa?